Lectio Magistralis : La sostenibilità della crescita globale

Grazie. È per me un grande onore essere qui con voi oggi per questo Graduation Day. È un gran­de onore e anche un grande piacere ritornare nella mia Alma Mater, dove ho completato i miei studi alla Facoltà di Scienze Economiche e Bancarie nell’ormai lontano 1977, quasi quarant’anni fa.

Il tema che ho scelto per la mia presentazione è però un tema che non è certo passato di moda negli ultimi quarant’anni. Il conflitto potenziale tra crescita economica e sostenibilità era già oggetto di accese discussioni quarant’anni fa come lo è oggi, sia in Italia che all’estero. Il tema ha diversi risvolti e non intendo certo coprirli tutti in questa mia presentazione. Non intendo, per esempio, coprire un tema che è, comunque, di grande importanza nel lungo periodo, quello della pressione che la crescita della produzione mondiale sta avendo sulle risorse del nostro pianeta e quindi sulla sostenibilità ecologica, a partire dalla questione del riscaldamento globale, tema importantissimo, ma in cui non mi considero certo un esperto.

Vorrei invece concentrarmi sul tema della sostenibilità economica e affrontare, in particolare, la seguente domanda: esistono delle fonti di vulnerabilità nel processo di crescita dell’economia mondiale che ha cratterizzato gli ultimi decenni tali da rendere questo processo economicamen­te non sostenibile? O, in altri termini: riuscirà’ l’economia mondiale a continuare a crescere senza generare tensioni tali da portare a nuove crisi? Credo che diversi aspetti nel processo di crescita dell’economia mondiale negli ultimi decenni comportino un elevato rischio di insostenibilità. La crisi del 2008-09, che, come sapete, è stata la più grave dagli anni ’30, potrebbe quindi non esse­re un evento isolato ma potrebbe ripetersi con una certa frequenza, anche se non necessariamen­te in una forma così intensa.

Per capire l’origine del problema, occorre innanzitutto rivisitare le cause sottostanti la crisi econo­mica e finanziaria che ha colpito l’economia mondiale nel 2008 e nel 2009.

Al di là delle motivazioni immediate della crisi—i problemi nel sub-prime market americano, ossia dei prestiti concessi alla leggera per finanziare l’acquisto di case—esistono a mio giudizio due ragioni di fondo della crisi, ragioni in parte tra loro correlate.

La prima è la tendenza a una crescita più rapida del settore finanziario rispetto all’economia reale che è emersa negli ultimi decenni. Diversi studi illustrano questa crescita negli Stati Uniti. La quo­ta dei servizi finanziari nel Pil statunitense è cresciuta dal 2,8 percento nel 1950 al 4,2 per cento nel 1980 e all’8,3 per cento poco prima della crisi economica globale. Andamenti simili si sono registrati anche per altri indicatori della dimensione del settore finanziario, quali la quota delle retribuzioni degli occupati nel settore finanziario rispetto al totale.

Questa crescita del settore finanziario rispetto alla dimensione dell’economia è proble­matica da diversi punti di vista. Prima di tutto è stato notato, per esempio da studi condotti dalla Banca dei Regolamenti Internazionali, che fino a un certo punto la crescita del settore finanziario viene accompagnata da una crescita dell’economia. Ma oltre una certa soglia –che viene iden­tificata da Stephen Cecchetti e Enisse Kharroubi in un lavoro del 2012 nel 100 per cento del Pil in termini di debito del settore privato e del 3,9 percento in termini di occupazione nel settore finanziario—una crescita del settore finanziario riduce la crescita della produttività complessiva dell’economia. In un lavoro successivo del 2015 gli stessi autori individuano diversi canali attraver­so cui una crescita eccessiva del settore finanziario danneggia la crescita della produttività. Uno di questi è la tendenza del settore finanziario a finanziare bolle speculative nel settore immobi­liare e, generalmente, a finanziare meno settori ad alta intensità di ricerca e sviluppo, per i quali è meno facile individuare attività che possano essere usate a garanzia dei prestiti. Un altro fattore è l’attrattività, in termini di remunerazione, del settore finanziario che sottrae i migliori cervelli ad altre attività economiche.

Oltre a questo possibile effetto sulla crescita della produttività, c’è anche un altro motivo per cui la crescita del settore finanziario può essere associata a crescenti vulnerabilità La cresci­ta del settore finanziario ne aumenta la complessità e rende difficile la supervisione del sistema finanziario stesso. Questa complessità, e le opache interrelazioni che si erano create tra diversi operatori finanziari, sono state un fattore fondamentale, se non nel causare, almeno nell’ingigan­tire la crisi del 2008-09, crisi partita dal un settore—quello del sub-prime market statunitense— che rispetto all’economia americana, e ancor piu’ mondiale, era piuttosto piccolo. Ma l’incertezza legata alla complessità delle interrelazioni finanziare minava la fiducia nel sistema finanziario nel suo complesso. E un sistema finanziario è necessariamente basato sulla fiducia.

La seconda tendenza di fondo sottostante la crisi del 2008-09, che è in certa misura la contro­parte della crescita del settore finanziario, è il crescente indebitamento delle famiglie in diversi paesi avanzati. Il caso emblematico è ancora una volta rappresentato dalle famiglie america­ne, anche se tendenze simili si sono manifestate in quasi tutti i paesi avanzati, per esempio nel Regno Unito. Un recente libro (House of Debt) di Atif Mian e Amir Sufir documenta come questa tendenza abbia contribuito alla crisi del 2008-09 e alla recessione che l’ha seguita. Il rapporto tra debito e reddito disponibile delle famiglie americane, pari a circa il 100 per cento negli anni ’60 e gli anni ’70 del secolo scorso, era salito al 150 per cento nel 2000 ed era balzato al 215 per cento nei sette anni successivi.

È fondamentale capire che questa tendenza all’indebitamento non è stata casuale, non è stata l’effetto di sviluppi passeggeri, di una esuberanza nel mercato finanziario che non si ripeterà. È invece dovuta in gran parte a un altro fenomeno più profondo, ossia la perdita di potere d’ac­quisto delle famiglie americane—e della maggior parte degli altri paesi avanzati—per effetto dei profondi cambiamenti nella distribuzione del reddito registrati a partire dall’inizio degli anni ‘80. Anche questi cambiamenti nella distribuzione del reddito sono ben documentati. Per esempio, la quota di reddito detenuta dall’uno per cento più ricco della popolazione statunitense che era del 9 per cento nel 1980, è ora intorno al 21 per cento. Da notare che questa quota è persino più ele­vata di quanto fosse all’inizio del secolo scorso. Nel 1910 la quota dell’uno per cento più ricco era di circa il 18 per cento. Nei settant’anni successivi il trend era stato verso una più equilibrata di­stribuzione del reddito. Dal 1980 il trend si è però invertito e, come ho detto, si è più che disfatto quello che si era ottenuto ne settant’anni precedenti il 1980. La controparte di questa tendenza è il graduale restringimento della classe media americana: la percentuale delle famiglie che sono comprese tra il 50 e il 150 per cento del reddito mediano è scesa dal 58 al 46 per cento nel corso degli ultimi quarant’anni.

Questo restringimento della classe media ha però avuto implicazioni importanti per la domanda di beni e servizi che l’economia può generare. Il motivo fondamentale è che, per quanto si sfor­zino, i ricchi non riescono a consumare più di tanto, per cui uno spostamento massiccio della distribuzione del reddito verso questi ultimi causa un indebolimento della domanda aggregata. La soluzione che è stata trovata a questo carenza di domanda aggregata è stata l’adozione di politiche monetarie sempre più espansive o, in altri termini, di tassi di interesse sempre più bassi. Nella scorsa decade, per ovviare a questo problema di carenza di domanda per consumi, la banca centrale americana ha abbassato progressivamente i propri tassi di interesse inducendo le famiglie americane a indebitarsi rapidamente. Il che per un po’ funziona.

Il problema è che questa crescita drogata, non accompagnata da un pari aumento dei redditi delle famiglie, è risultata alla fine insostenibile perché caratterizzata da una fragilità strutturale: l’eccessivo indebitamento delle famiglie americane. Certo, tassi di interesse più bassi comporta­no anche una maggiore capacità di sostenere il debito nel tempo. Ma se i tassi di interesse a un certo punto cominciano a salire, per esempio per evitare pressioni inflazionistiche, la fragilità del sistema si manifesta a pieno e improvvisamente. L’eccessivo indebitamento delle famiglie ameri­cane, e di altri paesi, è quindi un importante fattore dietro la crisi del 2008-09.

 

Prima di proseguire vorrei reiterare un punto. Ho spesso fatto riferimento, per comodità di esposizione all’economia americana, ma tendenze simili, in particolare in termini di cambiamenti nella distribuzione del reddito si sono osservati in tutti i G-7 (con l’eccezione della Francia), come segnalato dall’andamento dei coefficienti di Gini dagli anni ‘80.

 

Quindi, due fattori (la crescita del settore finanziario e la crescita dell’indebitamento delle fami­glie spiegata dai cambiamenti nella distribuzione del reddito) sono fondamentali nello spiegare la crisi del 2008-09. Se questa è la diagnosi, cosa possiamo concludere rispetto alla sostenibilità della crescita economica negli anni futuri? O, in altri termini, in che misura i problemi sottostanti la crisi del 2008-09 sono stati superati?

 

Cominciamo dal sistema finanziario. Dal 2009 diversi accordi a livello internazionale hanno por­tato a importanti cambiamenti nella regolamentazione dei mercati finanziari. Si è, in particolare, richiesto alle banche di rafforzare la propria capitalizzazione in modo da poter meglio assorbire eventuali perdite. Negli Stati Uniti il Dodd-Frank Act del 2010 ha rafforzato i poteri di supervi­sione sul sistema finanziario e la sua trasparenza. In Europa, la creazione di una unione bancaria, con la supervisione delle banche di maggiore dimensione assegnata al Single Supervisory Me­chanism, è stato un importante passo avanti, anche se alcune componenti dell’unione bancaria (in particolare un’assicurazione sui depositi a livello europeo) non sono ancora state introdotte.

Ma restano ancora diversi problemi. I principali sono tre.

 

Il primo, di cui si è ben consapevoli nel dibattito europeo, è la difficoltà di trovare una facile solu­zione al dilemma tra salvare chi ha prestato soldi alle banche, evitando problemi di contagio, ed evitare di premiare comportamenti irresponsabili (quelli di chi presta alle banche senza pensare ai rischi che questo comporta perché tanto se ci sono perdite ci pensa lo stato a coprirle). È il dilemma tra il bail out e il bail in, tanto dibattuto anche in Italia.

Il secondo problema è quello della crescente importanza in diversi paesi del cosiddetto “shadow banking”, cioè di intermediari finanziari che riescono a evitare la più stretta regolamentazione esistente per gli altri intermediari finanziari. Il problema è ben noto. Quando si stringe la regola­mentazione, il sistema finanziario tende a espandersi in forme non regolate. Al momento, nono­stante le discussioni, una parte non irrilevante del sistema finanziario, lo shadow banking appun­to agisce senza un’adeguata supervisione.

Terzo problema: il sistema finanziario, soprattutto quello americano, resta dominato da alcuni grandi gruppi finanziari, anzi, rispetto a dieci anni fa, è diventato ancora più concentrato. Questo crea il problema del “too big to fail”, ossia l’esistenza di istituzioni finanziarie che sono troppo grandi perché le si possa far fallire in caso di problemi, il che crea una propensione eccessiva al rischio da parte di queste istituzioni. Oltre a ciò cresce la concentrazione del potere finanziario. Il dibattito presidenziale negli Stati Uniti è stato caratterizzato quest’anno da un rinnovato interes­se su questo problema, grazie a Bernie Sanders.

Per riassumere, credo si possa concordare con il punto di vista espresso di recente da Neel Ka­shkai, il presidente di una delle componenti del Federal Reserve System, la banca centrale ame­ricana (Kashkai è presidente della Minneapolis Fed) e cioè che “Occorre dire la verità al popola americano sui rischi che ancora fronteggiamo” rispetto al sistema finanziario.

 

Per quanto riguarda la distribuzione del reddito, non ci sono segnali di un cambiamento di tendenza. È da notare che a una maggiore disuguaglianza all’interno dei singoli paesi—sia quelli avanzati che quelli emergenti—ha corrisposto una minore disuguaglianza tra paesi dovuta al fat­to che il reddito medio pro capite in molti paesi emergenti—come la Cina e l’India—è aumentato molto più rapidamente del reddito medio dei paesi avanzati. Questo per ora non ha però ade­guatamente sostenuto la domanda aggregata mondiale perché in alcuni di questi paesi, in parti­colare in Cina (anche per l’assenza di un adeguato livello di protezione sociale fornita dal settore pubblico) la propensione al consumo delle famiglie è rimasta piuttosto bassa.

La mia conclusione è quindi che i problemi di fondo dell’economia mondiale che hanno portato alla crisi del 2008-09 sono ancora in gran parte presenti e potrebbero portare a nuovi episodi di instabilità, magari non nell’immediato, ma nel corso degli anni.

 

Cosa si può fare allora per rendere più sostenibile la crescita economica?

 

Riguardo la riforma del sistema finanziario, credo occorra affrontare con maggiore energia il pro­blema della sua crescita rispetto alla dimensione del resto dell’economia e dell’eccessiva propen­sione al rischio degli operatori finanziari. Il sistema finanziario svolge un ruolo importante nell’e­conomia mondiale ma può essere assimilato a certe industrie che, pur essendo utili, possono causare quelli che potremmo chiamare “danni ambientali”. Un’eccessiva propensione al rischio, soprattutto in un settore che è grande rispetto al resto dell’economia, può causare danni molto gravi al sistema economico, come abbiamo sperimentato nel 2008-09. Gli economisti chiamano questi danni “esternalità” e ci sono fondamentalmente due approcci di politica economica per affrontare queste esternalità.

La prima è la regolamentazione, la seconda è la tassazione.

Non si tratta di strumenti necessariamente alternativi: possono essere combinati. Quello che occorre fare nel caso del sistema finanziario è ridurre ulteriormente i rischi attraverso la regolamentazio­ne, a partire dagli Stati Uniti, soprattutto per affrontare il problema del “too big too fail” e della eccessiva concentrazione di potere finanziario. Ma, a mio giudizio, credo sia anche necessaria una maggiore tassazione del settore finanziario nei principali paesi del mondo.

Il sistema finanziario è sotto tassato. Basti pensare che mentre esistono tasse sul valore aggiunto dei vari settori produttivi (in Italia abbiano l’IVA), i servizi finanziari non sono soggetti a queste tasse. Negli ultimi anni si è molto parlato di tassazione delle transazioni finanziarie anche con lo scopo specifico di ridurre le operazioni a rischio più elevato (si parla talvolta di Tobin tax). Non sono un sostenitore particolare di questa specifica forma di tassazione finanziaria, ma credo che qualcosa debba essere fatto. In proposito, il dipartimento di finanza pubblica del Fondo Moneta­rio Internazionale che ho diretto dal 2008 al 2013 aveva proposta l’introduzione di una Financial Activity Tax, essenzialmente una tassa sulla somma di profitti e stipendi (per lo meno al di sopra di una certa soglia) da applicare al sistema finanziario.

Naturalmente, tasse di questo tipo, vista la mobilità dei capitali, funzionano meglio se coordinate tra diversi paesi. Ma su questo tornerò fra poco.

 

Passiamo al secondo problema strutturale che considero problematico per la stabilità della cre­scita: l’incredibile spostamento della distribuzione del reddito nel corso degli ultimi tre decenni, spostamento che si è intensificato negli ultimi quindici anni in diversi paesi, e che ha causato un aumento nell’indebitamento delle famiglie. Correggere questa tendenza con strumenti di politica economica non è per niente facile. Occorre prima di tutto chiedersi a cosa siano dovuti questi cambiamenti nella distribuzione del reddito. Anche se varie cause possono aver operato—tra cui diversi mutamenti tecnologici—credo che un motivo fondamentale dello spostamento della distribuzione del reddito a favore delle classi più ricche sia dovuto al processo di globalizzazione. Questo processo ha aperto all’economia mondiale paesi ricchi di lavoro e poveri di capitale. Con­seguentemente il rapporto tra lavoro e capitale dell’economia globalizzata è aumentato e non ci si deve stupire se la quota del lavoro nella distribuzione del reddito si sia ridotta progressivamen­te nei paesi avanzati: questa quota è scesa da circa il 70 percento nella media semplice dei G-7 nel 1980 al 60 percento attuale. Oltre a ciò, la disponibilità di una maggiore quantità di lavoro non specializzato a livello mondiale ha causato una dispersione molto più forte anche nei redditi di lavoro. È utile in proposito ricordare la famosa regola morale di Adriano Olivetti secondo cui: “Nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario minino.” Basta guardare le attuali remunerazioni degli amministratori delegati per ca­pire come questo regola non sia più applicata.

 

Se i cambiamenti nella distribuzione del reddito sono stati effettivamente determinati dalla globalizzazione, allora risulterà molto più difficile correggerli, a meno di voler porre freno, o addirittura, invertire il processo di globalizzazione. Che ci possa essere una tendenza in questa direzione è reso evidente dal dibattito presidenziale americano con Trump e Sanders—ai due poli opposti dello spettro politico—entrambi molto critici della liberalizzazione del commercio inter­nazionale.

Credo che, pragmaticamente, sia difficile pensare che ci possa essere un’inversione del processo di globalizzazione (a tutti piace comprare elettrodomestici prodotti a basso prezzo dalla Cina, no?). Il che, però, renderà più difficile correggere gli squilibri nella distribuzione del reddito. Natu­ralmente ci si può provare attraverso la tassazione. Il problema qui è l’elevata mobilità non solo del capitale, ma probabilmente anche dei redditi da lavoro più elevati. Quanto più elevata è la mobilità di un fattore produttivo, quanto più difficile è tassarlo. Il che rende difficili gli interven­ti volti alla correzione della distribuzione del reddito se introdotti a livello di singolo stato. E, in effetti, una conseguenza della globalizzazione è proprio l’aumento della mobilità del capitale e la conseguente guerra al ribasso nella tassazione del capitale nei paesi nel mondo.

 

L’unica soluzione è puntare a una maggiore cooperazione a livello internazionale tra le varie giurisdizioni fiscali. Ci sono segni di questa maggiore cooperazione per quanto riguarda la lotta all’evasone e all’elusione fiscale. L’OCSE ha coordinato l’azione dei principali paese in quest’area, ultimamente attraverso la cosiddetta iniziativa BEPS—cioè contro la Base Erosion and Profit Shi­fting, l’erosione delle basi imponibili e lo spostamento dei profitti verso giurisdizioni a tassazione più bassa. Ma si tratta di un terreno ancora in gran parte inesplorato. Si è ancora più indietro nei tentativi di coordinamento delle politiche di tassazione, cioè nel coordinamento delle aliquote di tassazione e delle basi imponibili: anzi, non c’è nessun coordinamento, c’è piuttosto una compe­tizione al ribasso delle aliquote di tassazione sui redditi da capitale, Ma nonostante le difficoltà credo sia necessario continuare su questa strada per cercare di correggere in parte le variazioni che abbiamo osservato nella distribuzione del reddito negli ultimi decenni, variazioni, che, come ho detto, hanno conseguenze significative per la stabilità della crescita di lungo periodo.

Vorrei concludere ricordando un’altra cosa che lo stato può fare per favorire una distribuzione del reddito più equa, in aggiunta ad un’appropriata tassazione. Ho notato che una buona parte dei cambiamenti nella distribuzione del reddito riguardano l’ampliamento dei differenziali nelle retribuzioni del fattore lavoro. Dal punto di vista dell’equità sociale diventa quindi ancora più im­portante che in passato assicurare che esista un’elevata mobilità economica verso l’alto per chi si impegna, indipendentemente dal punto di partenza. L’Italia non eccelle da questo punto di vista: le statistiche dimostrano che le rendite di posizione—il mantenimento dello stato sociale acqui­sito dai genitori—è molto più elevato in Italia che in Francia o in Spagna. Una maggiore mobilità può però essere facilitata dalla fornitura di servizi educativi di elevata qualità a tutti i giovani che sono disposti ad impegnarsi. La disponibilità di una pubblica istruzione a livello scolare ed universitario di elevata qualità resta quindi fondamentale, anzi è ancora più importante che in passato.

Mi sembra appropriato concludere questa mia presentazione oggi, qui a Siena, in quella che è stata e ancora rimane la mia università, ricordando appunto la centralità del nostro sistema edu­cativo per il futuro della nostra economia e della nostra società.

Questa centralità va mantenuta e alimentata. La conoscenza è l’elemento chiave nella competizione in società avanzate e deve essere accessibile a tutti. In ultima analisi, però, starà a voi sfruttare nella vostra vita professionale gli strumenti che vi sono stati forniti nel vostro percorso educativo, evitando facili scorciatoie e ricordando sempre che, alla lunga, è l’impegno che viene premiato.

Grazie e congratulazioni a tutti voi per gli studi che avete completato.

 

Carlo Cottarelli

Direttore esecutivo

Fondo Monetario Internazionale

Cottarelli_GDay_1

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento